Recensione di ‘Tropico del cancro’ di Henry Miller
Una
volta pensavo che essere umano fosse la maggior meta dell’uomo, ma oggi vedo
che questo significava distruggermi. Oggi mi vanto di poter dire che sono
disumano.
Tropico
del cancro è stata una rivelazione, fin dalla prima pagina. Pensavo di trovare
un libro semplicemente più sfrontato ma pur sempre frivolo, e invece ho trovato
una guida, un altro modo per guardare al mondo senza illusioni e con
disincanto: una filosofia di vita estesa a ogni aspetto dell’esistenza più
quotidiana.
Il romanzo è scritto in forma di diario, quindi è in
prima persona e privo di una vera e propria trama. Nella Parigi degli anni ’30 un
uomo racconta la sua esperienza di stentata sopravvivenza e disgusto verso l’umanità
che lo circonda, tutta chiusa nelle sue chiacchiere vuote e rassicuranti tabù
impregnati di ipocrisia, schiava delle macchine e depredata di ogni passione. A
mano a mano che la narrazione procede vengono introdotti sempre più dettagli
che permettono di ricostruire il suo passato e l’evento – neanche così
originale, anzi una vera banalità per noi divoratori di drammi del ventunesimo
secolo - che l’ha reso tanto disincantato verso la realtà: cinismo e distacco
sono fioriti nientemeno che da una delusione d’amore. Accanto al racconto degli
scarsi e ripetitivi avvenimenti che movimentano la vita del protagonista –
forse Miller stesso – si delinea un sentito ritratto della città che assurge a
ritratto dell’umanità intera, questo attraverso ora riflessioni quasi
filosofiche, ora veri e propri sfoghi verso il genere umano, ora prese di
coscienza di una condizione in fondo privilegiata rispetto agli altri, poveri
sognatori senza scrupoli e riconoscenza:
Vedo
quest’ altra razza di individui che rovistano l’universo, capovolgendo ogni
cosa, coi piedi che sempre si muovono nel sangue e nelle lacrime, le mani
sempre vuote, sempre tese ad afferrare quel che c’è oltre, il bene lontano.
Con questo retroterra di consapevolezze non può
stupire più di tanto il linguaggio privo di filtri e i ricorrenti riferimenti
alla sfera del sesso che, anzi, sono perfettamente inquadrabili nel contesto
delle riflessioni precedenti. Addirittura, considerando che quello verso il
sesso è il primo sfogo del romanzo, esso potrebbe essere considerato simbolico
o indicativo per comprendere tutto il resto.
Se
qualcuno avesse il menomo sentimento del mistero attorno al fenomeno che si
etichetta ‘osceno’, questo mondo precipiterebbe.
Penso che la delusione di Miller e il suo
personaggio verso i contemporanei stia proprio in questo loro tentare di andare
sempre oltre, di dare una sfumatura idealistica alle cose e riempire di
pensiero e di regole tutto ciò che dovrebbe essere unicamente sentito con le
mani e la pelle; essi amano ciò che
scorre, nel senso meno vitale che esista: amano ciò che cambia e che passa,
perché hanno lo sguardo sempre rivolto al dopo, all’ideale, mentre il presente
sembra solo da disprezzare. Io appartengo
alla terra! - risponde Miller – anche
io amo tutto ciò che scorre: fiumi, fogne, lava, sperma, sangue, bile, parole,
frasi. Ma sono concetti incomprensibili ai più, con loro non si può che
fingere un adattamento o al massimo giocare, come fa costantemente Miller con
le sue analogie apparentemente senza senso (e forse lo sono davvero, ma è
questa la sostanza del gioco), riferimenti letterari e filosofici. E infatti
conclude:
Il
grande desiderio incestuoso è scorrere all’unisono col tempo, sprofondare nella
grande immagine dell’al di là che è l’hic et nunc. Un desiderio fatuo, suicida,
costipato di parole e paralizzato dal pensiero.
- Papavero Blu
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