Recensione "La mia vita è un paese straniero" by Brian Turner
Nel 2003 il sergente Brian Turner è a capo di un convoglio di soldati nel deserto iracheno. Nel corso del libro, unendo numerosi e diversi frammenti, e non sempre seguendo un ordine strettamente cronologico, l’autore/protagonista narratore racconta la guerra, dall’inizio della sua esperienza fino alla sua conclusione; senza dimenticare i tanti e indelebili traumi che caratterizzeranno anche il seguito della sua esistenza. Figlio e nipote di soldati, le sue esperienze si fondono con quelle del padre e del nonno. Così tutti i conflitti si dispiegano sotto di lui in un unico, immenso, territorio di guerra e violenza.
Ma Turner non vuole ancorarsi a un solo punto di vista: quello americano. Così attraverso i suoi occhi, e seppure continui sempre lui a raccontare, ci immergiamo nelle menti, nella quotidianità, nei pensieri e delle sensazioni di chi si trova dall’altra parte del campo di battaglia, dei civili esterni che sono coinvolti per errore nel conflitto, in chi è rimasto a casa ad aspettare i cari in guerra, o nei suoi diversi commilitoni.
Un paragrafo alla volta, La mia vita è un paese straniero racconta in diretta le azioni, le esercitazioni, i vuoti e i rumori, la paura e il coraggio, gli scontri, la quotidianità della vita da campo, e di quella al di fuori di esso, la tragedia e la gioia dei ritorni. E riconnettendo vita e poesia, orrore e morte, riesce a dare alla guerra le parole che le mancano, raccontandola per quella che è. O che, almeno per l’autore, è stata.
La scrittura di Turner si mostra fin da subito insolitamente ricca, in bilico fra minuziosità e lirismo e soprattutto realizzata con un lessico molto vario: ora tecnico, ora poetico, ora gergale. E a tutto ciò si somma il continuo viaggio in epoche e situazioni diverse. Aggiungiamoci anche che l’intero libro non è formato da capitoli, ma è un insieme di paragrafi numerati e divisi (solo graficamente, grazie all’aggiunta di pagine grige) in diverse sezioni. Eppure neanche per un secondo La mia vita è un paese straniero appare come un volume frammentario o, peggio, confusionario. Al contrario si percepisce subito, nonostante (e forse anche grazie a) l’imprevedibilità della struttura, la molteplicità delle ambientazioni, la sintassi trasognata e i repentini salti di tono, un senso unitario e di ordine interno. Turner prende per mano il lettore e lo immerge in questo viaggio, tra narrazione e flusso di coscienza. E nonostante le tappe siano spesso inaspettate e disordinate, tutto si ritrova a essere in qualche modo connesso. Forse perché c’è un’unica chiave unitaria: la schiettezza del racconto e il voler mostrare i diversi aspetti di questa complicata esperienza così come sono.
Il soldato semplice Miller scrisse un breve messaggio mentre era seduto su un wc chimico nella flotta veicoli della base operativa avanzata Patriot.
Il soldato semplice Miller posò la mitragliatrice di squadra sul calcio, si chinò in avanti per prenderne in bocca la canna. Un mangusta si fermò sotto un arancio più avanti, lungo il fiume. E poi il soldato semplice Miller premette il grilletto, così che sei proiettili circa gli attraversassero il cocuzzolo.
Nel bene e nel male, il libro riesce a riflettere la complessa, sconvolgente e devastante esperienza di un uomo. Eppure, allo stesso tempo, essa diventa esperienza comune, un’insieme di esperienze differenti vissute da individui differenti, ma che rientrano tutte sotto lo stesso nome: guerra.
Forse il punto non è che è tanto difficile tornare a casa, quanto che a casa non c’è spazio per tutto quello che devo portarci. L’America, smisurata ed estesa da un oceano all’altro, non ha abbastanza spazio per contenere la guerra che ognuno dei suoi soldati porta a casa.
E anche se ne avesse, non vorrebbe.
Proprio per la sua volontà di raccontare la guerra così com’è, la vera guerra, Turner adotta un occhio soggettivo e oggettivo insieme. È soggettivo quando parla e si immerge nelle vicende che lui stesso o i suoi familiari hanno vissuto. È oggettivo quando, nonostante ci faccia ancora vedere attraverso i suoi occhi, ci immerge nelle esperienze di terzi.
Eppure. Quanto è stupefacente respirare. Che una pompa delle dimensioni di un pugno, il cuore, dia il segnale all’orologio interno del corpo, minuto per minuto, per una vita. Il semplice fatto che un bombarolo possa lavorare a un ordigno senza accorgersi di star canticchiando insieme a Tommy James è qualcosa che svanisce nelle crepe di questo mondo. Un canto. Una cantilena sommessa, quasi inudibile, è vero. Ma pur sempre un canto. Delicato come quello di un uccello. Il momento che richiede, seppure in misura minima, una parvenza di bellezza, per sovrapporsi all’assemblaggio del freddo e metallico invito della Morte. Un canto.
Ma soprattutto, Turner si mantiene estremamente oggettivo nel suo non dare una chiave di lettura. Mai, neanche una volta suggerisce una luce interpretativa. Non pensa neanche di accennare, ai suoi lettori, una possibile emozione con cui reagire a ciò che racconta. Nè dice al suo pubblico se e su cosa riflettere dopo o durante la lettura. Semplicemente si limita a raccontare la pura e cruda verità. E paradossalmente proprio in questo modo scatena una miriade di emozioni, pensieri e riflessioni nel lettore, che è libero di reagire in base al proprio modo di essere.
La mia vita è un paese straniero è un libro ricchissimo nello stile, nella diversità, nella sua unità; ricchissimo di esperienze, emozioni, pensieri e riflessioni, che non nascono da lui, ma con lui. E questo apre infinite possibilità. Questo è il suo grande potere.
La mia vita è un paese straniero non è un libro facile. Ma neanche uno eccessivamente complesso. Probabilmente non è un testo per tutti, ma è uno di quelli che tutti dovrebbero leggere.
La grande ricchezza di contenuti, lo stile a metà tra prosa e poesia, il lessico così vario e la frammentata unità di cui già ho parlato rendono, certo, unico e potente questo volume, ma allo stesso tempo non possono non causare una scrematura tra i possibili lettori.
La mia vita è un paese straniero non è adatto per una lettura occasionale, né per un pubblico distratto o debole. La mia vita è un paese straniero è un volume per chi sa e vuole cogliere un libro in tutta la sua interezza. Per chi sa e vuole percepire la scrittura in ogni sua singola e minima sfumatura. Ma sopratutto non è uno di quei testi che si prendono in mano per caso. Perché nasce per colpire, forte e in profondità come un pugno nello stomaco, e per lasciare il segno come una profonda e pulsante cicatrice. È un libro che nasce per essere vissuto e sentito, e per questo richiede e seleziona fin da subito un lettore attento e sensibile. E probabilmente anche un po’ scafato. Eppure è impossibile, per il giusto pubblico, non capire subito l’enorme potenziale e ricchezza che si nasconde tra queste pagine, e men che meno resistergli. La vera sfida è, perciò, depositarlo nelle mani adatte a riceverlo, sotto gli occhi di chi sa come guardarlo. Perché a conquistare ci penserà il libro stesso (anche a una semplice, fugace, sfogliata).
Buona lettura!
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