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Recensione: Rose in Chains

Trama
Una principessa in pericolo. E se fosse il cattivo a salvarla?
Non fidarti dell’apparenza

Quando il regno di Evermore viene conquistato dal nemico e lei viene catturata, Briony Rosewood si rende conto che il suo mondo è cambiato per sempre e che il luogo che chiamava casa non è più un rifugio sicuro. Dopo la vittoria delle forze del male, schiavitù, prigionia e morte sono il triste destino del suo popolo. Privata della magia e della libertà, Briony stessa viene scelta per essere venduta al miglior offerente e, in quanto principessa di Evermore, è il premio più ambito. Dopo un’asta accesissima, è Toven Hearst, l’erede di una famiglia nota per la sua crudeltà, ad aggiudicarsela. Tuttavia, nonostante gli orrori della nuova realtà che è costretta ad affrontare e del nuovo ruolo che deve imparare a ricoprire, Briony si accorge che non tutto è perduto. E che la speranza e un volto amico si possono trovare anche nei posti più impensabili...
Ci sono romanzi che ti folgorano al primo capitolo e altri che, come le melodie lente, entrano in sottofondo e poi – quasi senza che te ne accorga – occupano tutto lo spazio. Rose in Chains appartiene alla seconda categoria. Fin dalle prime pagine sentivo che la storia di Briony Rosewood aveva il potenziale per parlarmi, ma non mi sono subito abbandonata: l’autrice mozzica, invita, poi arretra, lasciandoti in sospeso con domande tipo: “Dove sto andando? Perché vibra così la mia anima?, finché, pagina dopo pagina, il dubbio si scioglie in pura dipendenza.
Briony è un dono raro: grintosa e vulnerabile insieme, vittima ma mai mascotte del proprio dolore. È la compagna di cella che vorresti tirare su di peso quando vacilla e l’amica che difenderesti con i pugni (o con la magia, se solo non le fosse stata strappata). All’opposto, Toven Hearst è il fascino del proibito: erede di una stirpe famigerata, carnefice designato eppure indecifrabile, circondato da spire d’ombra che non riescono a soffocare quel barlume di “chissà”. Non l’ho mai davvero odiato; l’ho osservato, piuttosto, con la curiosità con cui si scruta un cielo incerto, sperando che il temporale si trasformi in pioggia estiva. Spero di conoscerlo fino in fondo nel seguito.
Se dovessi assegnare però la corona al personaggio più riuscito, la mia scelta cadrebbe su Serena, madre di Toven. La si incontra in punta di piedi eppure riempie la stanza con il peso delle parole taciute. C’è una vita intera nei suoi silenzi e nelle crepe della sua gentilezza, un passato che si intuisce più che si vede. In uno scenario dominato da catene, Serena rappresenta la resilienza che non alza mai la voce ma non cede un millimetro.
La matrice fan-fiction di Rose in Chains – nata fra le pieghe di un conosciutissimo castello di maghi – si percepisce soltanto se la cerchi con la lente d’ingrandimento. L’autrice ha preso quell’eco e l’ha trasformata in qualcosa di autonomo, ricamando attorno a Briony un regno spezzato e un sistema di potere che fa paura proprio perché plausibile. Evermore non è Hogwarts: è il rovescio di un sogno, un luogo dove la magia non libera ma incatena, e dove la speranza va smontata e rimontata pezzo per pezzo.
Schiavitù, mercificazione del corpo femminile, oppressione di casta – Rose in Chains affonda le mani in argomenti scomodi senza indulgere nel voyeurismo né indorare la pillola. Non c’è nulla di romanticizzato nella prigionia di Briony, ma non c’è neppure la gratuità del dolore fine a sé stesso. Ogni catena ha un nome, ogni ferita un peso narrativo. Lo spicy c’è, ma resta soffuso; ciò che brucia davvero è l’ingiustizia, messa a nudo da un villain femminile – Veronika – la cui crudeltà calcolata toglie il respiro. Trigger warning obbligatorio, per chi vuole tuffarsi a occhi aperti.
La penna dell’autrice è visiva, cinematografica: inquadra dettagli di velluto e lame arrugginite, alterna ritmo teso e parentesi di tenerezza, facendo vibrare le emozioni come corde di un’arpa. Se all’inizio la prosa sembra quasi indugiare, in realtà sta solo tendendo la molla. Quando scatta, non c’è più ritorno.
Avevo fiutato la direzione della storia, eppure il colpo di scena conclusivo è riuscito a sorprendermi con quel “non così” che, da lettrice smaliziata, amo ritrovare. È la conferma che la costruzione narrativa regge anche quando l’intuizione del lettore supera la cortina di fumo.
Rose in Chains non è un fantasy di puro intrattenimento: chiede di guardare in faccia la disumanità prima di offrire redenzione. Ma chi accetta la sfida troverà personaggi memorabili (Finn, Larissa, Cordelia portano sulle spalle sottotrame da esplorare), un world-building viscerale e una storia che – come una rosa dai petali di ferro – punge e profuma allo stesso tempo.
Voto: 
Consigliatissimo a chi ama il fantasy romantico con tinte dark, a chi cerca protagoniste granitiche ma capaci di tremare, e a chi non ha paura di fare i conti con le catene, fuori e dentro di sé.
È solo l’inizio: sento che il seguito ci farà sanguinare il cuore… e, ammettiamolo, non vediamo l’ora.
Alla prossima,

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