Recensione: Black Panther - Wakanda Forever

Salve, specchietti!

Oggi sono qui per parlarvi dell’ultimo film della fase 4 del Marvel Cinematic Universe (prima dello speciale di Natale che esce questa settimana). Sto parlando di Black Panther: Wakanda Forever. Munitevi di fazzoletti, perché oggi sarà dura.

Nel film di Marvel Studios “Black Panther: Wakanda Forever”, la regina Ramonda (Angela Bassett), Shuri (Letitia Wright), M’Baku (Winston Duke), Okoye (Danai Gurira)e le Dora Milaje (tra cui Florence Kasumba), combattono per proteggere la loro nazione dalle ingerenze delle potenze mondiali dopo la morte di re T’Challa. Mentre gli abitanti del Wakanda lottano per passare alla fase successiva, gli eroi fare fronte comune con la War Dog Nakia (Lupita Nyong’o) ed Everett Ross (Martin Freeman) per dare un nuovo assetto al regno. Oltre all’esordio di Tenoch Huerta nel ruolo di Namor, re di una nazione sottomarina segreta, il film vede la partecipazione di Dominique Thorne, Michaela Coel, Mabel Cadena e Alex Livanalli.

Black Panther: Wakanda Forever è un viaggio, è un saluto, è un manuale su come affrontare il dolore e, allo stesso tempo, su come non farlo. È una fotografia dell’animo umano nel momento più buio della sua esistenza.

È inutile dire che l’intera pellicola sia stata pensata per avere Chadwick Boseman come suo protagonista e che, a causa della prematura scomparsa di quest’ultimo, i Marvel Studios abbiano dovuto correre ai ripari e modificare la trama per riadattarla sugli altri personaggi. Tuttavia, come la stessa regina Ramonda ricorda sodi, “T’Challa – e, quindi, anche Chadwick – è morto, ma non se n'è mai andato davvero”. Ogni singolo frame del film è impresso dell’animo di Chadwick che, come sa bene chi segue anche i retroscena del Marvel Cinematic Universe, poco si discostava dal suo personaggio. Chadwick era, ed è ancora, per i fan, ma soprattutto per la comunità dei neri, re T’Challa. Le due figure sono tuttora indistinguibili.

Ecco, quindi, che la morte di T’Challa è specchio della morte di Chadwick stesso, il dolore espresso dai personaggi per la scomparsa del loro re, figlio, fratello, amante e amico è il medesimo dolore di ogni singolo membro del cast per la perdita del loro collega.

A tal proposito, la scena con cui si apre il film è devastante, bellissima nella sua crudele realtà. Finzione e vita vera si fondono. Lo spettatore non piange per la morte di un personaggio sullo schermo, ma per quella di ogni caro che si è visto strappare via per colpa di quella stessa terribile malattia e, diciamocelo, a chi non è successo al giorno d’oggi?

Ho apprezzato questa scelta coraggiosa. Avrebbero potuto scegliere di far uscire di scena T’Challa in parecchi modi. Il più scontato sarebbe stato in un combattimento. Questa scelta, però, oltre a rispettare e omaggiare la vita di Chadwick, ci dà anche una lezione importantissima: i supereroi sono umani. Possono avere forza fuori dal comune, armi ipertecnologiche, vivere a lungo persino, ma sono umani. Muoiono come noi.

Con la morte di T’Challa, sono gli altri personaggi a reggere la scena. Prima tra tutti, la regina Ramonda. Angela Bassett fa un lavoro impeccabile. Ramonda ha perso il marito, ha perso il figlio, più volte fino a questa terribile e definitiva, sta perdendo la figlia che con difficoltà sopporta il carico del dolore e, come se ciò non fosse bastasse, deve anche tenere le redini della nazione più potente nel mondo, proprio nel suo momento più buio. La forza di Ramonda trapassa lo schermo, arriva dritta allo spettatore. È una forza che mette radici nel dolore, nella rabbia, persino nella disperazione. È un’esplosione dirompente di sentimenti che la fa anche sbagliare, ma, se sbaglia, Ramonda sbaglia da madre. Il Wakanda per lei è sopra ogni cosa, ma sopra il Wakanda c’è Shuri.

Un altro personaggio che mi ha piacevolmente sorpreso e Riri Williams, alias Iron Heart, anche se prenderà questo nome soltanto nella serie a lei dedicata. Se in Spider-Man: Far From Home, in un certo senso, Peter Parker viene eletto come erede spirituale di Tony Stark, Riri è sicuramente l’erede del suo genio. Ed ecco che, accanto a un tributo a T’Challa, torna a presentarsi nel Marvel Cinematic Universe un tributo ad Iron Man. Ridi si costruisce un’armatura con i suoi soli mezzi, un po’ come la Mac1 di Tony nel deserto; rivediamo Tony nei suoi movimenti e persino nella grafica della sua armatura, ma, allo stesso tempo, Riri è ben diversa dal nostro amato “genio, miliardario, playboy, filantropo”. Certo, entrambi hanno un carattere forte, ribelle, forse anche sopra le righe, tuttavia Tony è nato con la strada spianata, figlio di un genio, miliardario non per merito proprio; Riri deve costruirsi da sé, passo dopo passo, pezzo dopo pezzo. Non vedo l’ora di saperne di più su di lei e di vedere la serie a lei dedicata.

Ho lasciato volutamente per ultimi due protagonisti della pellicola: Namor e Shuri. Shuri è il personaggio che mi ha lasciato più perplessa all’interno del film. Devo ammettere che non mi è mai piaciuta del tutto. È innegabile, però, che tra tutti sia lei ad aver affrontato l’evoluzione più complessa. Non voglio dirvi troppo per non fare spoiler, ma sicuramente non è più la ragazzina che scherzava con il fratello nel primo film e che si pavoneggiava di essere più intelligente di Tony Stark e Bruce Banner messi insieme. Se prima, infatti, era solo un germoglio in fiore, qui è un arbusto bruciato, annientato dal dolore, consumato dalla rabbia.

Non ho apprezzato alcune sue scelte all’interno di questa pellicola, ma, allo stesso tempo, è chiaro che il dolore non ci rende lucidi. Forse si può azzardare che il dolore è l’unica giustificazione nel fare qualcosa di tremendamente sbagliato.

Contrapposto a Shuri c’è Namor, personaggio senza alcun dubbio interessante. La sua storia viene qui in parte riscritta: l’Atlantide dei fumetti diventa Talokan, la storia del popolo sottomarino si intreccia a quella delle antiche popolazioni centro-americane, Inca e Maya. Namor è il classico esempio di cattivo con le giuste motivazioni. In fondo, sono le stesse motivazioni che muovono il Wakanda. È il modo di attuarle che diventa sbagliato. D’altronde, però, anche lui è mosso dal dolore.

Ecco che Black Panther: Wakanda Forever ci dà un grosso insegnamento: il dolore può generare rabbia, che a sua volta può generare sete di vendetta, che porta inevitabilmente alla distruzione. Ma il dolore può portare anche a qualcosa di buono, basta saperlo accettare e trovare la forza e il coraggio per andare avanti.

Il primo film ha vinto tre premi Oscar come Miglior Scenografia, Migliori Costumi e Migliore Colonna Sonora. Questo film non sembra esserne da meno. Certo, vediamo poco il Wakanda rispetto al tripudio di colori che ci aveva affascinati alle cascate del guerriero durante l’incoronazione di T’Challa, ma, in compenso, facciamo la conoscenza di Talokan. La città sottomarina doveva in origine avere il nome di Atlantide, così come era nei fumetti, ma esso è stato cambiato per distaccarsi dall’ormai celebre città di Aquaman, film appartenente all'universo DC. Ho trovato, però, Talokan come un’Atlantide più “reale”: l’architettura, la popolazione, le luci, il modo stesso di muoversi e di viverla, riflettono abbastanza fedelmente quella che potrebbe essere la vita negli abissi, ben diversa dal castello luminoso che vediamo, ad esempio, in film come La Sirenetta.

La colonna sonora è, ancora una volta, da brividi. La canzone di Rihanna aderisce perfettamente non solo al film, ma al la scena stessa in cui viene posta. I tamburi ormai iconici del Wakanda sono intervallati a momenti di silenzio. È proprio il silenzio, paradossalmente, a essere la colonna sonora migliore. Ogni momento dedicato a Chadwick è accompagnato dal silenzio più assoluto, come se la musica stessa subisse il peso della sua perdita.

Per quanto il film mi sia piaciuto, devo ammettere che, soprattutto nella parte finale, avevo la persistente sensazione che ci fosse qualcosa di storto, qualcosa che mancasse. Forse è la stessa assenza di Chadwick a farsi sentire perché, bisogna ammetterlo, Letitia Wright non sembra riuscire a mantenere l’intero film sulle sue spalle. Sono gli altri personaggi accanto a lei a dare forza alla pellicola.

Certo, ci sarebbe ancora tanto da dire, si dovrebbe, ad esempio, parlare della nuova pantera o delle implicazioni che possa avere porre questo film come pellicola conclusiva della fase quattro del Marvel Cinematic Universe, ma Black Panther: Wakanda Forever è un’esperienza di cui non bisogna parlare, bisogna viverla. È una seduta di psicoterapia che ci costringe ad affrontare il nostro dolore. È un film che, sicuramente, avrebbe potuto essere migliore, con scene d’azione che sono tutt’altro che memorabili, ma è, allo stesso tempo, o un film che punta dritto al cuore.

Assegno 5 specchi a questa pellicola e vi do appuntamento alla prossima,

-IronPrincess



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