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Recensione: Hamilton

 


Salve, specchietti!

Mentre le giornate si fanno sempre più calde, la vostra IronPrincess è qui per parlarvi di uno degli ultimi arrivi su DisneyPlus: Hamilton.

Si tratta di un musical di Broadway, scritto da Lin-Manuel Miranda e portato sul palcoscenico a partire dal 2015. Dopo aver ricevuto numerosi premi, tra cui 11 Tony Award un Grammy e un Pulitzer, lo spettacolo è giunto quest’anno su Disney Plus, in attesa di arrivare su grande schermo il 15 ottobre 2021. Lo spettacolo si presenta in lingua originale, nella versione registrata al Richard Rodgers Theatre di New York nel giugno del 2016. Al momento, sono presenti solamente i sottotitoli in inglese, poiché non è ancora stata completata la traduzione.

“My name is Alexander Hamilton

And there’s a million things I haven’t done 
But just you wait 
Just you wait” 

- Alexander Hamilton -

La storia, tratta dal libro “Alexander Hamilton” di Ron Chernow, parla, appunto, di Alexander Hamilton, uno dei padri fondatori dei moderni Stati Uniti d’America. In 2 ore e 40 minuti ripercorriamo letteralmente tutta la sua vita, dalla nascita nei Caraibi, fino alla morte per mano di Aaron Burr, attraverso gli anni della rivoluzione americana e i primi periodi della repubblica indipendente. Devo ammettere che non conoscevo così dettagliatamente la storia della rivoluzione americana e suoi protagonisti, quindi non posso giudicare l’esattezza storica del musical, ma posso dire che esso mi ha dato un quadro piuttosto chiaro di ciò che avveniva in quegli anni a New York e dintorni.

La regia dello spettacolo è affidata a Thomas Kail, mentre Alexander Hamilton è interpretato dallo stesso Miranda, già conosciuto in ambito Disney, tra le altre cose, per aver scritto le canzoni di Oceania. Altro nome già noto agli appassionati della casa di Topolino è Jonathan Groff, voce di Kristoff nel film della serie di Frozen e qui interprete del – ridicolo – re Giorgio III.

Il musical si suddivide in due atti: il primo parte dalla nascita di Hamilton, fino alla sua nomina come Tesoriere di Stato durante il mandato di Washington come primo presidente degli Stati Uniti; il secondo parte nel 1789 e termina, come già detto, con la morte del protagonista.


Ma andiamo alla storia.

Narratore della vicenda è Aaron Burr, il quale si presenta sin dall'inizio come l’omicida del protagonista. Burr sarà presente per tutto l’arco narrativo come una sorta di antagonista della vicenda, questo se vogliamo considerare Hamilton come il “buono” della situazione. Il confine tra bene e male, in realtà, è molto labile e solo la storia potrà decidere come ricordare gli uomini che in essa si sono distinti.

Hamilton, da immigrato come tante volte viene definito dai suoi stessi amici, diventa perno della costruzione del nuovo Stato e, addirittura, primo Tesoriere. Patriota sì, ma non un Santo; Hamilton ha commesso numerosi errori nella sua vita, pesando su quella della moglie e, soprattutto, del figlio.

 

D’altronde, lo stesso George Washington più volte sottolinea al suo braccio destro come loro non possano decidere come saranno ricordati: sarà la storia stessa a fare di loro dei vincitori o dei perdenti. Pur avendo sbagliato più volte, pur essendo sceso a compromessi con la sua coscienza per salvare la sua carriera politica, spesso anche a discapito della sua stessa famiglia, Hamilton sarà ricordato come uno dei padri fondatori, mentre Burr, che ha lavorato al suo fianco per tutto il tempo, passerà alla storia come il suo assassino.

“When you got skin in the game 
You stay in the game 
But you don’t get a win 
Unless you play in the game” 

- The room where it happens -

 

La principale differenza tra Hamilton e Burr sta proprio in questo: Hamilton è disposto a tutto pur di raggiungere i suoi obiettivi, pure ammettere pubblicamente di aver tradito la moglie affinché i suoi nemici politici non prendano vantaggio da ciò. Burr, invece, è sempre stato più accorto. Non ha mai mostrato apertamente le proprie idee politiche per paura di perdere, si è sempre limitato a cogliere le opportunità quando se l’è trovate davanti, mettendo da parte le proprie ideologie.

 

 

Oltre ai già citati Hamilton e Burr e al mitico Washington, altri personaggi dal grande spessore nella vicenda sono Thomas Jefferson, presentato come un uomo ecclettico, e le due maggiori sorelle Schuyler, Angelica ed Eliza, entrambe innamorate di Alexander. Sarà Eliza, la secondogenita, a sposarlo, nonostante Angelica abbia messo per prima gli occhi su di lui. La primogenita preferisce mettere la felicità della sorella davanti alla propria, accontentandosi di avere, almeno, Alexander nella sua vita, in qualche modo.


Questo passaggio è presentato in maniera magistrale all’interno della sequenza di Satisfied. Viene messo in scena il processo di innamoramento di Eliza e Alexander fino al loro matrimonio, solo un mese dopo. Durante i festeggiamenti, la damigella d’onore, Angelica, fa partire un rewind e veniamo accompagnati nuovamente attraverso l’intera storia, questa volta gustandola dalla sua prospettiva. Scopriamo, così, che oltre a rinunciare a Hamilton per amore di sua sorella, c’è un’altra ragione a guidarla: essendo la primogenita di una famiglia potente, non può abbassarsi a sposare un uomo squattrinato.


“I’m a girl in a world in which 
My only job is to marry rich. 
My father has no sons, so I’m the one 
Who has to social climb for one 
‘Cause I’m the oldest and wittiest 
And the gossip in New York City 
Is insidious 
And Alexander is penniless 
That doesn’t mean 
I want him any less” 

- Satisfied -
Angelica ed Eliza instillano la forza delle donne nello spettacolo. Da un lato una donna con le idee più rivoluzionarie della rivoluzione stessa, ma non per questo capace di sradicare le idee maschiliste da una società di fine ‘700, dall’altra una moglie ferita, capace di perdonare e con la forza di proseguire l’opera del marito, di raccontare la sua storia, di rendere lui e gli altri protagonisti della rivoluzione immortali.

Il femminismo non è l’unico tema forte che, in punta di piedi, fa capolino nella produzione. Troviamo, ad esempio, riferimenti alla schiavitù. Viene dato spazio alla morte di Laurens che, dopo la guerra contro il Regno Unito, aveva creato un esercito per l’emancipazione dei neri. O, ancora, si parlerà di immigrazione, con Hamilton che sarà decisivo nella rivoluzione, assieme all’amico Lafayette. Uno proveniente dai Caraibi, l’altro francese, porteranno il nascente Stato alla vittoria – incontrando l’approvazione del pubblico.


“We’re finally on the field 
We’ve had quite a run 
Immigrants 
We get the job done” 

- Yorktown - 

Lo show lascia spazio anche a momenti divertenti – in particolar modo gli interventi di re Giorgio – e a momenti commoventi, come la morte di Philip Hamilton o, ancora, il momento della nascita sua e di Theodosia Burr. Con il palco diviso in due, Alexander e Aaron riflettono sul fatto di essere cresciuti senza un padre e si chiedono se saranno essere dei buoni genitori per i loro figli.

“My father wasn’t around 

Swear that I’ll be around for you 
I’ll do whatever it takes 
I’ll make a million mistakes 
I’ll make the world 
Safe and sound for you” 

- Dear Theodosia -


La vera forza di questo musical sta nel riuscire a comunicare una storia di tre secoli fa anche alle ultime generazioni, grazie a musiche giovani, coinvolgenti e orecchiabili, i cui stili variano dall’hip-hip, al jazz, all’R&B (caratterista che l’ha portato all’attenzione dell’allora Presidente Obama). Memorabile è, ad esempio, la battaglia di freestyle durante le riunioni di governo, tra Jefferson e Hamilton.

 


 

Specchio magico per questo spettacolo che mi ha fatto venire voglia di vedere più musical di Broadway e che non vedo l’ora di poter rigustare sul grande schermo l’anno prossimo.

 

Alla prossima storia,



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