Recensione: Joker - Folie À Deux. E spiegazione del finale

Salve specchietti!

Fate un bel sorriso perché stiamo per parlare di uno dei film più controversi dell’ultimo periodo. Si tratta di Joker – Folie À Deux, sequel del pluripremiato Joker di Todd Phillips.

Vi avviso, inoltre, che al termine della recensione ci sarà una parte spoiler (segnalata da apposito banner) con quella che, secondo me, è la spiegazione del finale. Fatemi sapere se voi avete colto qualche significato che a me è sfuggito.

Dall’acclamato sceneggiatore, regista e produttore Todd Phillips arriva “Joker: Folie À Deux”, l’attesissimo sequel di “Joker”, vincitore dell’Oscar nel 2019 che ha incassato più di un miliardo di dollari al botteghino globale, affermandosi come il film vietato ai minori dal maggior incasso di tutti i tempi. Questo nuovo capitolo ha come protagonista ancora una volta Joaquin Phoenix nel suo doppio ruolo da Oscar, di Arthur Fleck/Joker, al fianco della vincitrice del Premio Oscar Lady Gaga (“A Star Is Born”).

In “Joker: Folie À Deux”, Arthur Fleck è recluso nel manicomio di Arkham in attesa di essere processato per i crimini commessi come Joker. Mentre lotta con la sua doppia identità, Arthur non solo scopre il vero amore, ma trova anche la musica che ha sempre avuto dentro di sé.

Fanno parte del cast del film i candidati all’Oscar Brendan Gleeson (“Gli spiriti dell’isola”) e Catherine Keener (“Scappa – Get Out”, “Truman Capote – A sangue freddo”), insieme a Zazie Beets, che riprende il suo ruolo in “Joker”.

A distanza di cinque anni dal primo capitolo della dilogia, Joaquin Phoenix torna a indossare i panni di Arthur Fleck, “Joker”, il personaggio che gli è valso la vittoria di un premio Oscar come Miglior Attore Protagonista.

La storia attinge direttamente a ciò che è successo nel primo film e vede il nostro Arthur Fleck all’interno del manicomio di Arkham, in attesa di essere processato per gli omicidi commessi nei panni del Joker. Qui, a un corso di musica, conosce Lee Quinzel. Subito, tra i due si instaura una certa chimica. Arthur… cambia. Ha trovato il suo tassello mancante, qualcuno che lo ama così com’è… O almeno crede.

"Per una volta nella mia vita non mi sono più sentito solo al mondo."

La relazione tra Lee e Arthur è costellata dalla musica, una musica che sentono solo loro, canzoni che fanno parte della fantasia di Arthur proprio come nel primo film aveva immaginato tutta la relazione con la vicina di casa, Sophie.

In questo, ho colto una naturale evoluzione del primo film. Abbiamo già visto come Arthur viva in un mondo di fantasia, come tenda a immaginarsi molto di ciò che vive (e anche in questo film mi sono chiesta più volte se quello che stavamo vedendo fosse reale, in particolare alla luce del finale). Anche la musica non è un elemento nuovo nella sua vita. Nell’iconica scena della scalinata del primo capitolo era Arthur a sentire la musica nella sua testa e la cosa si era ripetuta più volte nel corso della pellicola. Qui è lo stesso Arthur a sottolinearlo. Quando gli viene chiesto che cosa ricorda della notte in cui ha ucciso in diretta tv, lui risponde semplicemente “la musica”.

"E poi che faremo?"

"Costruiremo una montagna."

Che cosa è cambiato? Perché adesso ci troviamo di fronte a un vero e proprio musical? Perché così come la sua vita ha trovato completezza in Lee, anche la sua musica adesso si è completata. Non è più un sottofondo, ha un testo, sono parole, un dialogo tra lui e la sua amata.

Personalmente, da divoratrice di musical, non ho trovato la parte musicale pesante o lenta, ma, ripeto, ritengo che sia perfettamente aderente alla natura del personaggio dipintoci da Joaquin Phoenix già nel 2019.

"Voglio vedere il vero te."

Ho trovato questo film è più sottotono rispetto al primo, lì dove un’escalation di omicidi portava all’esplosione della criminalità di Gotham e, contestualmente, alla creazione di Batman (con l’omicidio dei coniugi Wayne nel vicolo dietro al teatro). Qui i toni sono sempre molto pacati, la violenza tarda a esplodere e, quando lo fa, si spegne subito, come un fuoco di paglia, portandoci a un finale estremamente diverso da quello che ci saremmo immaginati (devo ammettere che mi ci sono voluti dei giorni per digerirlo, giorni in cui ci ho rimuginato sopra a lungo per cercare di comprenderlo in ogni sfaccettatura).

Joker: Folie À Deux, così come Joker, non sono mai stati dei cinecomics nel senso puro del termine. Per quanto prendano ispirazione dalle pagine dei fumetti, le loro vicende sono reali o, quantomeno, realistiche. Sono film dal forte contenuto psicologico che hanno bisogno di più visioni per essere compresi fino in fondo.

"Vuoi ancora morire?"

"All'epoca sicuramente mi sembrava più facile che vivere."

Se la narrazione può lasciare insoddisfatti, la parte tecnica mantiene gli alti standard che hanno assicurato al primo capitolo numerosi premi: regia, fotografia, colonna sonora e soprattutto una straordinaria interpretazione di Joaquin Phoenix sono da lodare senza alcun dubbio. Forse, l’unico appunto che può essere fatto è non aver sfruttato fino in fondo la presenza di Lady Gaga, il cui personaggio sembra, a volte, marginale (ovviamente sul piano musicale non potevano fare scelta migliore, ma scordatevi di ritrovare la interpretazione da pelle d’oca di A Star is Born).

Tutto sommato è un film che mi è piaciuto parecchio, anche se le recensioni negative mi avevano fatto andare al cinema quasi prevenuta. Certo, non raggiunge gli alti livelli del primo film, ma ha i suoi meriti e, cosa di cui avevo più paura all’annuncio di questo sequel, non tradisce le intenzioni del primo volume.

Per questi motivi, assegno a Joker: Folie À Deux i miei quattro specchi.


Spoiler: spiegazione del finale

Arthur Fleck non è mai stato il Joker di fumetti!

Proprio mentre mi accingevo a scrivere questa recensione, il regista, Todd Phillips ha dichiarato quello che, a mio avviso, è un po’ il messaggio del film: Arthur non è Joker.

Hanno cercato di dircelo in tutti i modi: prima l’avvocato di Arthur che basa la sua difesa proprio sulle due identità separate del suo cliente, poi con l’arringa finale di Arthur, in cui si spoglia di quella maschera che la gente ha voluto mettergli addosso, mostrandosi come quello che è realmente: un uomo, con dei problemi, che è stato trascinato dagli eventi, che ha ucciso quasi per difesa (non a caso ha ucciso solo gente che gli aveva fatto del male e non ha mai toccato Gary), per finire in quell’ultima scena: il “finto” Joker muore e si assiste alla nascita del “vero” Joker, con il suo assassino che, ridendo, si sfregia il volto, ricreando le cicatrici iconiche del Joker di Heath Ledger.

“Costruiremo una montagna da una collina”, ripete più volte Lee che non è mai stata veramente innamorata di Arthur. Lei ama Joker, quella figura idealizzata da lei e da molta altra gente, come l’uomo che ha ucciso i coniugi Wayne alla fine del primo film o i due tizi che aiutano Arthur a scappare dal tribunale.

Arthur, in questa contorta metafora, è la collina. È l’ordinarietà, la banalità. La montagna è la criminalità che esplode a Gotham a seguito delle sue gesta, è quel “vero” Joker che sorge dalla sua morte.

“Quando costruirò una montagna, lascerò un figlio” canta lo stesso Arthur, mentre muore.

Un’ulteriore spiegazione è data dall’ultima barzelletta. “Uno psicopatico incontra un clown”. Arthur è ed è sempre stato il clown della situazione. La sua stessa vita è come se fosse una patetica barzelletta. Non ha mai avuto vere intenzioni criminali. Anche quando spara a Murray, la sua intenzione originaria era di uccidersi in diretta per porre fine alla sua patetica vita. Una volta lì, però, viene ferito dalle parole di Murray ed agisce di conseguenza.

Il misterioso ragazzo che lo uccide, invece, agisce per pura cattiveria. Non è provocato o ferito. E il suo folle sguardo è una costante in molte scene, uno sguardo che Arthur non ha avuto neanche durante gli omicidi più efferati. È lui il vero psicopatico, il vero Joker. Arthur gli ha solo aperto la strada, ma non era abbastanza folle da proseguirla.


Alla prossima,

-Iron Princess



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