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E' morto Umberto Eco

Questa è stata la prima news che ho letto stamattina alzandomi dal letto. È morto Umberto Eco.
La cronaca della notizia ha fatto il giro del mondo (e non è tanto per esagerare: un articolo al riguardo compare anche, tra i tanti, nella testata del New York Times) in poche ore, e così sappiamo ormai tutti che lo scrittore/filosofo/professore/semiologo/editore (e chi più ne ha più ne metta) si è spento ieri sera, alle 22.30, nella propria abitazione. Aveva 84 anni.
Citare e onorare i suoi titoli, i riconoscimenti e i meriti, sarebbe giusto; ma credo anche scontato, oltre che un'azione già eccessivamente abusata nella sola giornata di oggi. Chiunque, nel nostro paese e non solo, sarebbe capace di ricordare almeno una delle importanti e rimarcabili azioni da lui compiute da quel non così lontano 1932, anno della sua nascita. No, ciò su cui voglio concentrarmi è la prima domanda che ha attraversato la mia mente subito dopo aver aver letto la fatidica notizia, che ora rigiro anche voi. Umberto Eco è morto, e a noi cosa resta? Della sua morte, della sua persona... cosa ci rimane?
Io, Umberto Eco, ho avuto la fortuna di incontrarlo. Da lontano, un piccolo puntino tra la folla, ma l'ho incontrato, e ho potuto ascoltarlo. Chissà come si sentivano in quell'infinità di persone coloro che ascoltavano le parole di Gesù. No, non voglio paragonare di certo lo scrittore al Messia, lui per primo mi rimprovererebbe l'eccessiva arroganza. Però l'emozione di essere lì, il sentirsi fortunati a poter accogliere parole così piene e importanti, credo che, in un certo senso, fosse quasi la stessa. Una fortuna inaspettata, tanto per cominciare. Il 14 febbraio del 2015, in quella stanza dell'Archiginnasio di Bologna, io ci capitai per caso. Eppure non ci misi molto a capire che era quello il posto giusto in cui sarei dovuta essere. Perché anche se con la scusa di presentare il suo ultimo libro, Numero Zero, Eco avrà parlato a malapena un'ora, in quei 60 minuti c'è stato tutto. No, non voglio dire che quel piccolo lasso di tempo si stato sufficiente a conoscerlo come le mie tasche. Non sarebbe mai stato possibile. Ma c'è stato così tanto in quell'incontro, tanto da far sentire cresciuti di almeno due centimetri in più solo per aver ascoltato, che davvero sembra riduttivo usare un altro termine. C'era un vecchietto, e uno spirito ancora fin troppo forte per quel corpo che, ahimé, presentava i segni della debolezza e della vecchiaia. C'era un ultra-ottantenne che avrebbe potuto mettersi lo spirito in pace, come è fin troppo facile superata una certa età, e che invece sceglieva continuamente di essere parte integrante del mondo il cui suolo ancora calpestava. C'era un filosofo che guardava ancora con occhi attenti alla politica, alla società, a ciò che gli accadeva intorno, e che aveva ancora non solo la forza, ma la voglia, il gusto, di provare a migliorarlo e di interrogarsi su quale fosse il modo migliore per farlo. C'era un adulto conscio della propria età e dei limiti che essa comportava, pur non lasciandosi frenare da essi nel tentativo di dare sempre il meglio; ma consapevole anche che cambiare il mondo spettasse soprattutto ai giovani, e pronto non solo a ceder loro il ruolo da protagonisti, ma a donare e a investirci sopra la propria speranza. "È la saggezza dell'esperienza" mi dicevo ascoltandolo, e nel frattempo pensavo che sarei voluta invecchiare anche io così. Con la capacità di continuare a osservare e a interrogarsi sul mondo che continuava a cambiargli attorno; con la volontà e il piacere di essere circondato dai giovani, in un continuo confronto, anche come professore. Con la tenacia, mai cieca, del continuare a credere nei propri valori, e la forza di lottare per essi (anche scontrandosi con un immenso colosso editoriale e commerciale fin dalle prime avvisaglie della sua nascita); e la speranza, quella sempre, per un futuro migliore e per chi avrebbe poi continuato a viverlo e a costruirlo.
Forse ho esagerato un po'. Forse ho romanzato troppo un uomo che ho potuto sfiorare solo per pochi istanti e solo da lontano. Ma se anche avessi errato totalmente il tiro, se avessi mitizzato troppo qualcuno che in realtà valeva appena la metà di ciò che ho descritto, o se al contrario fossi riuscita a cogliere solo una piccolissima parte di quel grande uomo, credo comunque che egli meriti anche questo riconoscimento. Non può infatti essere considerato un po' un eroe chi è in grado di toccare gli spiriti altrui, donando richezza e anche un po' di speranza?
(Almeno) per questo ci si dovrebbe chiedere cosa lascia per e dentro noi. I suoi libri, le sue parole, e le sue azioni, tutto ciò resterà anche oggi, anche domani, e ancora per molto, nonostante da ieri Umberto Eco non ci sia più. Ma spetta a noi, ora, domandarci cosa farne del suo lascito, e se prenderci la responsabilità di accoglierlo sulle nostre spalle, per permettergli di migliorarci e di accrescerci ancora un po'.
Grazie di tutto.


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